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 Tracce della... Famiglia Bagnato di Caria

 Il Noce di Caria

 >>====> Caria

Di seguito pubblichiamo il racconto ricevuto da Agostino Bagnato originario di Caria e che vive a Roma da circa 45 anni; dopo un lungo impegno politico, ha scelto il movimento cooperativo come attività prevalente (attualmente è presidente di Mediterraneo www.mediterraneo.coop, consorzio nazionale di ricerca scientifica del mare e della pesca), giornalista e scrittore affermato con oltre 30 pubblicazioni, dirige la rivista l'albatros www.rivistaalbatros.it. Ha anche un contratto d'insegnamento all'università di Roma "La Sapienza", Facoltà di filosofia, dove svolge due corsi, rispettivamente su Mazzini e Labriola e il cooperativismo.

Agostino appena imbattutosi nel nostro sito ci ha contattato per comunicarci i suoi apprezzamenti; a seguito di contatti più approfonditi sulla sua vita personale e professionale lo abbiamo sollecitato a raccontarci la sua storia umana e famigliare, poiché testimone diretto di avvenimenti e stili di vita del Poro durante gli anni '40 e '50, in particolare nei comuni di Drapia e Tropea.

Confidiamo che, alla ricezione di un racconto ricco di particolari e puntuale sugli avvenimenti, abbiamo avuto un attimo di sorprendente smarrimento e ci siamo domandati se la pubblicazione integrale del testo (lungo) si adattasse alle esigenze degli utenti del sito. Dopo attenta lettura abbiamo deciso di non chiedere nessuna riduzione all'autore in quanto il racconto si presenta armonioso e via via sempre più interessante al lettore, lo abbiamo pubblicato integralmente e ne consigliamo la completa lettura... è un documento veramente prezioso.

Alla fine dell'articolo sono inserite antiche immagini di questa grande famiglia.

I Ns ringraziamenti all'autore - La Redazione.

Indice e Struttura della Ricerca:

Clicca sugli Argomenti

Introduzione

Librerie di famiglia

Ma torniamo alla famiglia.

La Famiglia Paterna

La zia Rosetta

La Famiglia Materna

Ricordi di Caria

Richiami Letterari

La Musica

L’Agricoltura

Il Mare

Conclusione

Agostino Bagnato  ragazzo >>====>

Memorie di Caria attraversando la Famiglia Bagnato

di Agostino Bagnato

 Introduzione

Il mio nome non significa nulla per coloro che leggono, visitando il sito Internet che ospita questo scritto. Il contesto della mia infanzia e adolescenza trascorse a Caria e dintorni negli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso può darsi che possa essere utile per qualcuno nel ricordare e ricostruire il percorso riguardante famiglie originarie della zona e disperse per il procedere del tempo e degli avvenimenti individuali. Non si tratta di una operazione nostalgia. Sono abituato a guardare costantemente al futuro, pur restando con i piedi saldi per terra, convinto che la storia è maestra di vita come lo è la società urbana, πολισ διδάσχαλων άνδρων (polis didaskalon andron, la città è maestra di vita) secondo l’insegnamento degli  antichi Greci. Mi piace pensare al passato in senso storicista. In questa operazione vengono in soccorso i libri letti e posseduti, vera maieutica della propria personalità.

Potrei fare un elenco lunghissimo per tracciare il percorso formativo che mi ha portato lontano da Caria e dalla terra d’origine. Mi limito a poche note essenziali, per ragioni pratiche, in quanto le librerie sono la carta d’identità della casa e delle persone che la abitano, dell’epoca in cui vivono e del senso comune della popolazione.                          Ritorno all'indice

 Librerie di famiglia

La libreria dei miei nonni paterni è stato il nutrimento culturale della prima giovinezza. Accanto a testi  storici della letteratura italiana come La divina commedia, Decamerone, Orlando Furioso, Gerusalemme Liberata e le tragedie di Vittorio Alfieri, facevano bella mostra di sé opere di narrativa popolare, come I reali di Francia, Guerrin meschino, Senza famiglia, L’ebreo errante, Ettore Fieramosca, Marco Visconti. Non mancavano le opere principali di Matilde Serao e Carolina Invernizio, raccolte poetiche di Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli, Lorenzo Stecchetti. I grandi narratori dell’Ottocento russo come Lev Tolstoj, Fëdor Dostoevskij e Maksim Gor’kij che ho letto avidamente, erano a fianco dei romanzi di Alexandre Dumas padre, Victor Hugo, Emile Zola e la narrativa da feuilleton di Michel Zevago ed Eugène Sue. Nela letteratura sociale la prevalenza andava alle opere di Edmondo De Amicis, Jack London, Emilio Salgari e La capanna dello zio Tom di Harriet Beecher Stowe. Ho letto quanto trovavo nella vetrina della camera da pranzo dei nonni in Via Regina Elena dove anch’io abitavo, primo di numerosi fratelli. Ma c’erano anche libri di politica. Ricordo Il capitale di Karl Marx nella traduzione di Carlo Cafiero, Il manifesto dei comunisti di Karl Marx e Friedrich Engels, L’Unico e la sua proprietà di Max Stirner, opere di Michail Bakunin e Pëtr Kropotkin, La storia del partito comunista (bolscevico) dell’Urss di Giuseppe Stalin, accanto a opere di Andrea Costa, Filippo Turati, Camillo Prampolini, Anna Kuliscioff, Palmiro Togliatti, Pietro Mancini, Fausto Gullo, Gennaro Miceli e molti altri dirigenti socialisti e comunisti.

Poi giunse l’Enciclopedia Italiana, in due volumi, che mio padre acquistò a rate, all’inizio degli anni Cinquanta. Si spalancò così un mondo infinito, incantato e misterioso, fitto di avvenimenti e di personaggi che accendevano la mia fantasia ma anche di fatti concreti e di insegnamenti morali. Fu quella la più miracolosa scuola che mai potesse esistere nel Meridione e di cui sono grato a mio padre ancora oggi.

Ho coperto i fumetti giovanissimo. Attendevo l’uscita di Tex Willer con ansia e ne divoravo le pagine. Il linguaggio corretto e preciso mi ha stimolato ulteriormente nella lettura di libri d’avventura. Non ho amato Paperino e Topolino, che a quel tempo andavano per la maggiore. Anche il Corriere dei Piccoli  con Le avventure del signor Bonaventura disegnato da Sergio Tofano è stato anche un punto di riferimento per amare la poesia in rima baciata.

La televisione arrivò soltanto nel 1955 e fu un altro miracolo di apertura al mondo, questa volta con le immagini, una finestra mobile su un mondo vastissimo la cui eco era giunta soltanto attraverso il filtro della fantasia. Fu merito della Democrazia Cristiana la diffusione del televisore nelle sedi locali di partito, in quanto la magica scatola venne consegnata omaggio, da quello che ho capito allora, per consentire di radunare più persone possibili attorno alla magica scatola, compreso quelli ostili al partito. Nonostante l’avvertimento di mio padre di non frequentare la sede democristiana, io e i miei fratelli facevamo capolino nel locale, fino a quando fu installato un televisore nella sede Acli sulla Via Provinciale. costituito un circolo popolare che acquistò un televisore per consentire a un numero più ampio possibile di persone l’ascolto di Lascia o raddoppia, degli sceneggiati tratti dai testi letterari più importanti e delle rappresentazioni teatrali. Come dimenticare il teatro di Renzo Ricci, Vittorio Gassman, Salvo Randone, Emma e Irma Gramatica, Paolo Stoppa, Rina Morelli, Gino Cervi, Gilberto Govi e Odoardo Spadaro?

Ma i libri che colpirono maggiormente la mia fantasia erano due volumetti, rispettivamente su Carlo Pisacane ed Errico Malatesta, il cui autore era mio zio Alessandro Bagnato che a quel tempo insegnava nelle scuole elementari di Vibo Valentia. Aveva insegnato in precedenza a Caria, dopo aver sposato la sorella maggiore di mio padre, Rosaria, figlia di Agostino Bagnato soprannominato “U varijaru” per via del mestiere di costruttore di botti, barili, mastelli e bigonci e di Maria Rosa Naso. Il maestro era nativo di Tropea e il cognome non aveva nulla a che vedere con l’altro Bagnato, quello della famiglia della giovane moglie. Era stato soldato sul Carso e si era guadagnato una onorificenza come ferito di guerra. Il fatto accresceva il prestigio nella famiglia, unitamente al rapporto epistolare con Carlo Delcroix, il superivalido di guerra a cui è dedicata una strada nella stessa Caria, e con numerosi dirigenti politici d’ispirazione anarchica esuli negli Stati Uniti. Aveva impiantato la prima radio a Caria nel 1929, seguito dal medico condotto Bernardo Fazzari.

Questo mio zio maestro elementare era l’intellettuale della famiglia allargata, autore di poesie patriottiche e civili durante il fascismo nonostante la formazione anarco-socialista, inviato dal regime in Albania per italianizzare gli abitanti delle Bocche di Cattaro, collaboratore di riviste anarchiche come L’adunata dei refrattari e Campane a stormo, lettore infaticabile di narrativa rivoluzionaria. Era un uomo mite e taciturno, generoso di consigli di lettura e di libri. Possiedo ancora oggi alcuni libri regalatimi, davvero introvabili e preziosi strumenti per studi storici, come La rivoluzione tradita di Dmitrij Volin e un altro sull’anarchico ucraino Anton Machno. Il figlio Domenico (1923-1993), geometra, giovanissimo militante comunista, si era recato clandestinamente in Jugoslavia per sfuggire le persecuzioni della polizia di Mario Scelba conseguenti l’occupazione delle terre[1], ma anche per conoscere le prime esperienze di costruzione del socialismo in quel paese. Era una figura quasi mitica per me, impregnato di letture rivoluzionarie e di narrativa sociale. Quando ha fatto ritorno da Sarajevo, dove aveva partecipato alla costruzione della Mlada doroga, la Strada della Gioventù che collega la capitale bosniaca a Dubrovnik, il suo racconto era la conferma della superiorità dell’impegno rivoluzionario. La storia successiva ha dimostrato l’amarezza di quella illusione. Ho percorso quella strada nel 1964 e il ricordo di quel racconto ha accompagnato l’intero itinerario tra montagne impervie, vallate coperte di boschi, torrenti e laghi, campi di grano e macere su cui faticavano  meli, fichi e melograni, compreso l’attraversamento di Mostar e la visione stupefacente del ponte turco sul fiume Neretva che sarebbe stato distrutto nel corso della guerra fratricida all’inizio degli anni Novanta. Pasquale Poerio era un giovane militante comunista che aveva abbandonato gli studi di medicina per dedicarsi alla politica. Veniva a trovare il nonno e mio padre nel corso delle peregrinazioni per coordinare l’attività delle cellule e delle sezioni comuniste nel Vibonese, lottando contro la tradizione bordighiana del “partito di pochi ma buoni” che rischiava di isolare ulteriormente i pochi militanti nell’ambiente ostile della zona. Poerio parlava di Domenico con rispetto e si augurava un sollecito ritorno, “perché il partito ne aveva bisogno! La politica di Tito è sbagliata e i nostri compagni sanno che cosa fare, non si lasceranno ingannare e difenderanno le posizioni del Comintern”. Il nonno non sapeva nulla di questioni interne al Comintern, ma si augura che il nipote potesse tornare presto. Io sentivo l’orgoglio di avere un cugino così importante!...

Negli anni successivi sono stato in ottimi rapporti con Pasquale Poerio, diventato nel frattempo deputato e prestigioso dirigente dell’Alleanza dei Contadini della Calabria. Nel 1975 sono stato incaricato di presiedere il congresso dell’Alleanza Contadini di Crotone e con Domenico e Pasquale abbiamo rievocato gli episodi jugoslavi. Io mi sentivo importante, perché ero stato ammesso tra gli adulti. Avevo appena 32 anni, ma politicamente rappresentava la generazione giovanissima, ancora non pronta a comprendere le ragioni della storia...       Ritorno all'indice

 Ma torniamo alla famiglia.

Gli altri due figli di Alessandro e Rosaria Bagnato, di nome Agostino e Rosina, vivono a Vibo Valentia. 

Un’altra libreria alla quale ho attinto per arricchire la confusa conoscenza adolescenziale e soddisfare la curiosità letteraria è stata quella di Cosmina Rombolà, una insegnante che ricordo con molto affetto e riconoscenza, la cui casa mi era familiare per l’amicizia del figlio maggiore Tonino, compagno inseparabile di giochi, di studio e di piccole avventure. Conservo ancora il volume edito da Vallardi nel 1947 contenente i drammi Il gabbiano, Zio Vanja, Tre sorelle e Il giardino dei ciliegi di Anton Čechov, lettura che mi ha spalancato le porte al teatro russo precedente e successivo a quello del medico di Taganrog, autore della Steppa e del Monaco nero, nonché una edizione rarissima de La chançon de Roland con testo[2] bilingue, risalente agli anni Venti.

C’era un altro punto di riferimento importante per approfondire alcune conoscenze che si cominciavano ad acquisire tra le aule della scuola media inferiore studiando a Tropea e successivamente tra quelle della scuola media superiore a Vibo Valentia, rappresentato dalla bonaria disponibilità del prete di Caria, all’epoca don Antonio Mazzitelli. Alla fine degli anni Cinquanta mi fece dono di una stima immeritata, consegnandomi per la lettura un quaderno scritto con calligrafia ordinata e precisa: si trattava della storia di Caria che sarebbe stata pubblicata nel 1969, dopo la sua morte, con qualche rimaneggiamento e aggiunte[3]. Ma io non vivevo più a Caria e sono riuscito ad avere in prestito il libro che ho fotocopiato e rilegato, conservandolo nella mia vasta biblioteca in bella evidenza[4]. Unitamente a un libro di filosofia edito a Reggio Calabria nel 1904 che mi regalò don Antonio, su cui ho appreso i primi elementi di metafisica e di teologia che oggi, insegnando propria nella Facoltà di Filosofia dell’Università di Roma “La Sapienza”, ricordo con particolare nostalgia e riconoscenza.

In Calabria non esisteva una sede universitaria. I pochissimi di Caria che avevano la fortuna di iscriversi e frequentare l’università erano diretti a Messina, Napoli e Roma. Ma si contavano sulle dita di una mano, compresi coloro che studiavano per “farsi prete”, come si diceva allora. Più facile era emigrare, in Argentina dove la comunità dei cariesi o carioti preparava il terreno; più difficile sbarcare negli Stati Uniti, dove mio padre ha tentato invano, nonostante la presenza di due fratelli. Iniziava in quegli anni la diaspora verso Torino, Milano e Roma che si sarebbe trasformata in una fuga vera e propria negli anni Sessanta e che avrebbe trasformato il volto del Mezzogiorno d’Italia e in particolare della Calabria. Coloro che frequentavano l’università erano guardati con grande ammirazione e rispetto. Io non aspiravo a tanto, a causa della povertà della mia famiglia. I libri erano pertanto un surrogato importante, quasi magico. Scoprii in quegli anni il miracolo della Bur, Biblioteca Universale Rizzoli, che accanto alla collana tascabile Mondadori, ha rappresentato un fondo culturale insostituibile per migliaia di giovani. Conservo ancora centinaia di quelle pubblicazioni, vero giacimento di conoscenza e di sapere a più livelli. A differenza di quanto si possa oggi pensare, non si trattava di edizioni popolari, quindi scarsamente curate e scientificamente poco attendibili. No. I classici greci e latini, gli autori più importanti della narrativa francese, inglese, spagnola, tedesca e russa, nonché i padri della letteratura italiana erano curati da studiosi di grande spessore che sono ancora oggi un punto di riferimento per la cultura italiana ed europea. Basti citare Alfredo Polledro ed Ettore Lo Gatto per la narrativa russa, Gabriele Baldini per quella inglese, Ladislao Mittner per quella tedesca e così via. Naturalmente non bastavano i soldi per acquistare i libri desiderati. Così ho potuto scoprire il valore incommensurabile delle biblioteche pubbliche. A Vibo Valentia esisteva la biblioteca comunale, a quel tempo quasi sempre deserta, retaggio di una civiltà culturale importante[5]. Ebbene, ogni pomeriggio mi rifugiavo nella sala di lettura, a dispetto di un allampanato custode che mi osservava incollerito. E’ lì che ho scoperto una grammatica russa, pubblicata prima della Rivoluzione d’ottobre e quindi con i caratteri cirillici antecedenti la riforma di Anatolij Lunačarskij. Ho appreso così i rudimenti di quella lingua, il cui studio mi avrebbe accompagnato per tutta la vita, portandomi ad approfondire storia, cultura, musica, arte e letteratura della Russia, a viaggiare successivamente per quel paese e a dedicare alcuni libri importanti, facendone quasi una seconda patria. [6]     Ritorno all'indice

 La Famiglia Paterna

L’origine della mia famiglia paterna è avvolta nell’oscurità. Secondo alcuni avrebbe origini siciliane legate a pescatori attestatisi a Parghelia, secondo altri si tratterebbe di un ceppo autoctono pargheliese. In ogni caso è certo che nel 1820 Agostino Naso “u judici”, ricco possidente di Caria e membro della Carboneria (il famoso massone Antonio Jeròcades era originario proprio del villaggio che prende nome dal greco Para Helisos), adotto un ragazzo nato a Parghelia, di nome Bonaventura Bagnato, orfano di entrambi i genitori. Bonaventura era intelligente, laborioso e saggio nel comportamento; così il padre decise di dargli in moglie la nipote Romana Naso. Il loro figlio Giuseppe sposò Rosaria Naso; dal matrimonio nacquero Bonaventura, Agostino (mio nonno), Pietro, Giuseppe e Romana, tutti sposati con prole e di cui ho vaghi  ricordi di bambino. In ogni caso nessuno ha fatto ricerche sulle origini della famiglia basate su documenti di archivio. La discendenza è oggi sparsa prevalentemente in Italia e anche per il mondo.

Mio nonno Agostino Bagnato (1878-1956) possedeva a Caria terreni in varie località e boschi sul Poro in località Feudo, è stato massaro e fattore del marchese Giuseppe Toraldo, infine si è dedicato al mestiere di bottaio. Negli anni precedenti la prima guerra mondiale emigrò negli Stati Uniti, trovando lavoro in Pennsylvania nella costruzione delle ferrovie, ingaggiato da un italiano. Nel 1899 aveva sposato Maria Rosa Naso (1880-1972), del ramo dei “Concessi”, prima di tre sorelle del benestante agricoltore Pietro Naso.Quel ramo della famiglia era originario di Spilinga; gli uomini si distinguevano per comportamenti originali e stravaganti, come portare l’orecchino, elemento di sicura distintività e personalità. Dal matrimonio nacquero ben 16 figli, di cui soltanto cinque diventati adulti. Rosaria (1900-1976) sposò il ricordato insegnante elementare Alessandro Bagnato (1892-1972), Giuseppe Rocco (1901-1984) nel 1923 emigrò negli Stati Uniti, visse lungamente a Newark dove svolse attività di birraio e non fece mai più ritorno in Italia, pur mantenendo sporadici rapporti epistolari;  l’unico figlio che credo si chiami Angel e con il quale non ci sono rapporti, svolge la professione di medico nel New Jersey. Pietro (1903-1976) emigrò nel 1924 negli Stati Uniti, visse tra la California e la Pennsylvania facendo lavori disparati, sposò una ragazza di origine napoletana e non ritornò più in Italia. Due suoi figli Augustin e Joseph vivono oggi a Pittston in Pennsylvania. Ho conosciuto Joe a Roma all’inizio degli anni Sessanta; svolgeva il servizio militare a Stoccarda con le truppe americane di stanza in Germania e durante una licenza, raggiunse l’Italia per conoscere i parenti. Fu un incontro commovente, anche perché la somiglianza con tanti di noi era impressionante. Si recò anche a Caria; nessuno parlava inglese e mio padre mi raccontò che a fare da interprete era stato il bottegaio Pietro Merenda, che essendo stato deportato in Germania dopo l’8 settembre 1943, ricordava qualche parola di tedesco, lingua che anche Joe conosceva approssimativamente. Joe ha sposato una Fraulein, ha fatto ritorno in patria e l’ultima volta che l’ho sentito al telefono, il 1987, aveva subito un intervento chirurgico al cuore piuttosto pesante. Il terzo figlio Peter, nato nel 1948, è stato militare in Vietnam nel corso dei mesi più sanguinosi del conflitto, ha sposato una ragazza irlandese di nome Mary e nel 1973, in viaggio di nozze, è stato in Italia per visitare Venezia, Portofino e Roma dove lo abbiamo festeggiato, vezzeggiato e coccolato in tutti i modi.  Dopo il matrimonio è vissuto a New York, lavorando come fotografo industriale in un attrezzato studio nei pressi del celeberrimo Moma (Museum of Modern Art). Sono stato ospite a casa sua, la prima volta a Queens in una bella casa con giardino dove provava a coltivare pomodori e agli, altre due volte ad Huntington, Long Island, in una casa immersa nel bosco, a pochi passi dall’oceano. Grande cacciatore e pescatore, mi ha fatto conoscere aspetti dell'America che non avrei mai immaginato. Carattere irrequieto, insoddisfatto di sé e in cerca di nuove esperienze, simile a molti della discendenza Bagnato, si è trasferito all’inizio degli anni ‘90 con la famiglia a Orlando in Florida, dove l’ambiente tropicale e la vegetazione lussureggiante sembrerebbe  consentirgli un dimensione vitale più autentica, assecondando la grande passione per la caccia e la pesca. I suoi figli, Abbey la ragazza e Patrick il secondogenito, sono due deliziosi rappresentanti della gioventù americana, per come li ricordo.

Mio padre Costantino è nato nel 1915. Il nome greco era legato alle tradizioni colte della madre che vantava uno zio arciprete, figura molto importante nella storia della famiglia, anche per il prestigio che il sacerdote godeva non soltanto a Caria. Testimonianza di questo legame era una icona che riproduceva la Madonna di Romania[7], protettrice di Tropea custodita sull’altare maggiore della cattedrale normanna. Si tratta di una copia su tela di buona fattura, probabilmente riconducibile all’inizio del Settecento. Quando ero bambino ricordo che l’icona era molto deteriorata, anche per l’incuria con cui era custodita. Mio padre l’ha portata con sé a Roma e nel 1980 me l’ha affidata per farla restaurare e proteggerla dai danni del tempo. Ha appreso il mestiere di falegname frequentando l’Università dei falegnami di Brattirò; così viene chiamata ancora oggi la bottega dei falegnami del vicino borgo famoso anche per la produzione di uva Pizzutello. Dopo avere svolto il servizio militare a Bolzano, l’abilità nel lavorare il legno gli ha consentito dopo il congedo di trovare lavoro a Roma come addetto alla costruzione e manutenzione di aerei Caproni all’aeroporto dell’Urbe, grazie all’intercessione di monsignor Toraldo, cameriere segreto di Papa Pio XII, fratello di Giuseppe Toraldo di cui mio nonno era fattore. Nel 1942 ha sposato Caterina Naso e da quel matrimonio sono nati otto figli. Dopo l’8 settembre 1943 è ritornato a Caria e ha messo in piedi un negozio di generi alimentari. Lo ricordo a bordo di una motocicletta tedesca Norton, acquistata chissà dove. Frequentazioni commerciali sbagliate portarono al fallimento dell’attività commerciale; mentre la famiglia cresceva, mio padre è partito in cerca di fortuna a Milano, senza trovarla. Il peso della famiglia è rimasto sulle spalle di mia madre che se ne è fatta carico con grande senso di responsabilità e spirito di sacrificio, contando sull’aiuto dei parenti propri e di mia nonna paterna. Particolarmente vicina è stata in quegli anni la giovane zia Rosina che ci ha aiutato in tutti i modi, a cominciare dalla testimonianza di un grande e sincero affetto che non è mai venuto meno.

Quando mio padre è tornato da Milano le difficoltà economiche della famiglia aumentarono, anche per la crisi generale che aveva investito il Mezzogiorno. Furono anni di indigenza, appena mitigati dai magri guadagni che procurava l’attività di falegname nel villaggio che cominciava a spopolarsi. La ricostruzione post-bellica non faceva sentire alcun beneficio nell’Italia meridionale, la società rurale subiva una profonda lacerazione con l’inizio dell’emigrazione al Nord e i primi segni del miracolo economico erano lontanissimi. Frequentare la scuola media era un sacrificio e non c’erano i mezzi per fare studiare tutti i figli. Io ero il maggiore e sono stato privilegiato rispetto agli altri. Un peso che ancora mi porto dietro, a dispetto di tutto.

Nel 1961 mio fratello Francesco ha aperto la strada per il trasferimento dell’intera famiglia a Roma. Io l’ho seguito dopo pochi mesi, appena terminati gli studi e ottenuto il diploma di geometra. La meta era la borgata di Prima Porta, dove abitavano alcuni amici di famiglia. Nel 1963 l’intera famiglia raggiunse Roma. L’ultima nata Elisabetta aveva appena tre anni.

Mio padre ha lavorato come falegname presso l’azienda di Umberto Lenzini a Grottarossa fino al momento della pensione, mentre ognuno dei figli cercava la propria strada nella caotica vita romana, creando le premesse per la costituzione delle reciproche famiglie.

Mio padre è deceduto nel 1990, in seguito a un incidente stradale. Anche mio fratello Giuseppe Rocco, nato nel 1946 e che aveva seguito le orme paterne, diventando un ottimo falegname con un’avviata bottega artigiana apprezzata dagli ambienti della borghesia e del mondo dello spettacolo per la qualità dell’arredamento prodotto, è deceduto in un incidente stradale, nel 1974. I miei fratelli e le mie sorelle (Francesco, Pietro, Rossella, Rosaria, Silvana ed Elisabetta) vivono a Roma, sono tutti sposati e con prole, alcuni già nonni numerose volte.

L’ultima figlia di Agostino Bagnato, Rosetta, nata nel 1928, ragioniera di professione, zia Rosina per tutti noi di cui ho già fatto menzione, dopo un incarico presso l’agenzia Olivetti di Vibo Valentia negli anni Cinquanta, è stata dipendente dell’Amministrazione provinciale di Catanzaro. La ricordo di una bellezza fresca e prorompente, una Rita Haywort mediterranea. Non si è sposata. Ancora oggi porta i segni del suo fascino naturale. Vive d’inverno a Catanzaro e d’estate a Tropea, dove ospita con la generosità e l’amore che la contraddistinguono da sempre, nipoti e pronipoti. A lei sono particolarmente legato, avendola elevata al rango di confidente e di protettrice, sia per la sensibilità profonda che per l’intelligenza acutissima. Ancora oggi resta per me un punto di riferimento irrinunciabile.                              Ritorno all'indice

 La Famiglia Materna

Mia madre Caterina Naso, del ramo detto “dei Turchi”, vive a Roma e ogni estate ritorna a Caria, nella casa di Via Regina Elena costruita dal suocero Agostino Bagnato alla fine degli anni Venti. E’ nata nel 1918 e non ha avuto la fortuna di conoscere il padre, Francesco Naso, nato nel 1885 e morto nello stesso 1918 di febbre spagnola, forse in un ospedale militare a Bari. Ricordo che da bambino sentivo parlare di quella triste vicenda, legata alla guerra e alle sue tragiche conseguenze. Leggevo la lapide che era stata apposta a memoria dei caduti sulla facciata del palazzo Toraldo che negli anni Cinquanta ospitava l’asilo infantile, e quei nomi infondevano infinita tristezza. Non so perché, ma non ho mai avvertito quel sentimento patriottico che altri sostenevano di provare leggendo le frasi retoriche inneggianti al sacrificio della vita per la grandezza della patria “nell’immane guerra dei popoli”. Questo mio sentimento ero forse legato al fatto che non si è mai saputo il luogo della sepoltura di nonno Francesco dove deporre un fiore e levare una preghiera al cielo. Si sapeva che era un uomo dai capelli rossi e che i nipoti che si ritrovavano con chiome fulve, come i miei fratelli Giuseppe Rocco, Rosella e Pietro dovevano questa traccia alla legge di Mendel.

La nonna Rosaria Pugliese, nata nel 1894 e deceduta nel 1971, è vissuta nella condizione di vedova di guerra con la severa dignità delle anime semplici, gestendo un modesto negozio di Sali e Tabacchi, l’unico del paese, collocato sulla strada provinciale Tropea-Vibo Valentia e accudendo a qualche appezzamento di terreno. Ha cresciuto i tre figli orfani, Elisabetta (1913-1966) sposata con Antonio Lo Scalzo, Agostino (1914-1985) sposato con Caterina Lo Scalzo e mia madre Caterina, sposata con Costantino Bagnato. E’ morta nel 1970, circondata dall’affetto di tantissimi nipoti. Il negozio di Tabacchi, divenuto bar e spaccio alimentare, esiste tuttora ed è  gestito da una figlia di Agostino Naso. Ricordo con precisione una storia fosca riguardante il nonno di mia madre, Domenico Naso che, all’inizio del Novecento, sarebbe stato aggredito e accoltellato dal barone Giffuni; l’uomo non parlò con nessuno delle ferite che curò con mezzi empirici. Qualche tempo dopo il barone fu trovato morto per un colpo di fucile. Il colpevole non è stato mai individuato. In punto di morte, Domenico Naso ha rivelato al confessore, nella persona del figlio Antonio, abate a Mandaradoni che ho conosciuto nella mia infanzia, di essere l’autore del delitto.

I parenti materni risiedono prevalentemente a Caria e dintorni.                 Ritorno all'indice

 Ricordi di Caria

Il primo ricordo che ho riguarda una sera d’inverno, il braciere acceso sotto il tavolo sul quale si consumava la cena. Stavo sulle gambe di nonno Agostino e all’improvviso la corrente elettrica è andata via. Sono scoppiato a piangere, per paura del buio ma soprattutto per il bagliore che proveniva da sotto il tavolo. Il nonno ha cercato di tranquillizzarmi, mentre mia madre mi diceva che gli angeli stavano sulla mia testa e non sarebbe successo nulla di grave. La paura del buio mi è sempre rimasta, inconscio misterioso legato a chissà quali eventi prenatali, accompagnandomi anche nell’età adulta. Ho paura a nuotare in mare aperto nel buio della notte, ad attraversare un campo aperto senza punti di riferimento. Mi è capitato in tante parti del mondo e il richiamo a quella esperienza infantile mi ha sostenuto a superare le prove. Mia madre ha sempre raccontato che, una notte dell’estate 1943, il nonno era in viaggio in direzione di Vibo Valentia; sul carro trainato da una vacca che era stato trasformato in una specie di calessino, avevano preso posto mia madre con me in braccio e zia Rosetta. All’altezza del campo di aviazione di Vibo Valentia, incrociando la strada statale delle Calabrie, il carro ha trovato la strada sbarrata da una colonna di carri armati tedeschi in ritirata verso il nord, dopo lo sbarco alleato in Sicilia.  La vacca aggiogata si è spaventata e il calessino è stato costretto a schiacciarsi contro la scarpata, facendo rotolare su se stessi gli occupanti. Un soldato tedesco mi ha afferrato mentre scivolavo a terra e mi ha consegnato nelle mani di mia madre, mentre il nonno cercava di placare i buoi. Quella vicenda deve avere lasciato qualche segno nel subconscio.

Una vicenda tutta particolare riguarda il terremoto. Quanti racconti ho sentito sulla distruzione di Reggio e Messina nel 1908? E prima ancora delle conseguenze del sisma di Casamicciola e di quello successivo di Avezzano... Tutti parlavano di quelle tragedie come se si fossero verificate appena ieri e tradendo la paura che si potessero verificare di nuovo! Sono cresciuto con il terrore del terremoto, lo confesso. La sera mi addormentavo guardando il lampadario: la sua oscillazione avrebbe denunciato la presenza del sisma... L’immaginario collettivo ingigantiva gli avvenimenti legati al terremoto e ciò aumentava il senso di impotenza e di nullità di fronte alla forza della natura, alla punizione celeste per i peccati dell’uomo, alla volontà imperscrutabile del Signore. Le prediche del parroco aggiungevano benzina sul fuoco, per cui il terremoto è stato vissuto come un autentico castigo. Il sisma del 1908 aveva distrutto l’ abitazione di mio nonno, costringendolo a vivere in campagna per molti anni, fino alla costruzione della casa di Via Regina Elena a metà degli anni Venti.

L’altra paura che mi trascino dietro è quella del vuoto dovuto a una voragine; la “timpa” di Caria di fronte a Spilinga rappresentava una minaccia per i bambini che si avvicinavano troppo al ciglio, reggendosi ai ciuffi di sparto, ansiosi di guardare in basso il lento scorrere della fiumara e il volo degli uccelli. Per me c’era un motivo in più per volgere lo sguardo laggiù, perché mio nonno era stato il fattore del marchese Giuseppe Toraldo, proprietario di quei terreni sui quali si favoleggiavano produzioni mirabolanti di agrumi e di olive e l’esistenza di un molino ad acqua di romantica attrazione. La fiumara sfocia a Formicoli, nei pressi di Capo Vaticano, mitica spiaggia del secondo dopoguerra ma a quel tempo inaccessibile. I giardini di aranci, mandarini e limoni lungo la costa sono ancora oggi un autentico paradiso per i contadini, anche se orripilanti edificazioni abitative e turistiche deturpano l’inimitabile paesaggio. La celebre cipolla rossa di Tropea è il vanto dell’agricoltura locale, accanto allo zibibbo oggi quasi scomparso. Proprio in quegli anni la cipolla rossa cominciava ad essere apprezzata dai consumatori di tutta Italia. Ma la criminalità esisteva già a quel tempo e il magazzino della cooperativa costituita per la raccolta e la vendita collettiva della cipolla è stata fatta saltare con il tritolo all’inizio degli anni Cinquanta. Nessuna altra forma associativa è nata negli anni seguenti.

Sul greto di quella fiumare si recavano le donne a fare il bucato e il chioccolio dell’acqua ha accompagnato tanti caldi pomeriggi d’estate tra lo stridio delle gazze e il canto delle cicale, quando andavo a raccogliere granchi di fiume.                                              Ritorno all'indice

  Richiami Letterari

Da ragazzo ho cercato i richiami letterari di Tropea e di Vibo Valentia, suggestionato dall’insegnamento scolastico, dallo studio dei classici greci e latini, dalle letture varie. La mia formazione da autodidatta è cominciata proprio in quegli anni ed è proseguita tutta la vita. Ancora oggi.

Ecco la descrizione che ne dà Strabone e che non ho mai dimenticato: «μετά δέ τήυ Кωσευτίαυ ΄Ιππώνιου, Λοκρών κτίσμα˙... Dopo Cosentia c’è Hipponion, fondazione dei Locresi: i Romani cacciarono i Bretti che la occupavano e le diedero il nome di Vibo Valentia. Poiché tutta la zona vicina è occupata da praterie belle e fiorite (è l’altipiano del Poro, nda), credono che Proserpina dalla Sicilia venisse qui per cogliere fiori e che da ciò derivi l’usanza, per le donne del paese, di cogliere fiori e intrecciare corone, cosicché, nei giorni festivi, ritengono sia cosa di cui vergognarsi portare corone comperate. Vi è là un porto (l’attuale Vibo Marina, nda) che fu allestito da Agatocle, tiranno della Sicilia, quando si impadronì della città.

Per chi naviga da qui verso il porto di Eracle (l’attuale Tropea, Forum Herculis romana, nda), le punte dell’Italia, quelle che sono presso lo Stretto, cominciano a volgersi verso occidente. Lungo questo litorale c’è Medma (l’odierna Rosarno, nda), città degli stessi Locresi, che ha lo stesso nome di una grande fonte ed ha vicino un porto denominato Emporion...»[8]

Debbo l’amore per la narrativa a due insegnanti di italiano: Italia Scaramuzzino alle medie e Antonio Sposaro alle superiori. Senza di loro non avrei scoperto il mistero della narrativa. Lo studio sui testi di Francesco De Sanctis, Francesco Pedrini, Natalino Sapegno, Francesco Flora e Attilio Momigliano, Giulio Ferroni, Giacinto Spagnoletti. mi ha accompagnato per tutta la vita, ma sono state le lezioni dei due insegnanti che mi hanno spalancato le porte della letteratura in senso ampio.

Debbo l’interesse per la filosofia al castello del pensatore Pasquale Galluppi che si staglia ancora oggi, diruto e tristemente abbandonato all’inizio di Caria salendo dal mare. Nella mia infanzia era già semi-abbandonato, ma il parco ricco di magnolie e di mimose rappresentava una sorta di antro magico per i bambini. Ricordo i racconti che gli adulti facevano sul filosofo, il quale amava compiere lunghissime passeggiate con un libro in mano sotto i pioppi che costeggiavano la strada. I celebri pioppi non ci sono più, ma la loro immagine è anche legata alla strada costruita quando era re di Napoli il generale francese Joaquin Murat, fucilato a Pizzo Calabro nel 1815 dopo il tentativo di sbarco per la riconquista del regno perduto. Il loro tronco si poteva abbracciare unendo gli arti di tre o quattro ragazzi e gli alberi lungo la strada segnavano magicamente il passare delle stagioni. Sotto i loro tronchi dimorava per alcune settimane all’anno una carovana di zingari con tendaggi e forge per lavorare ferro e rame. Gli uomini fabbricavano pentole, attizzatoi e palette per il focolare, bracieri luccicanti, stagnavano tegami; le donne elemosinavano e predicevano il futuro leggendo la mano. Raramente si sono verificati furti. Gli abitanti di Caria guardavano a quegli zigani con simpatia.

 La fiera annuale del paese, se ricordo bene, si svolgeva il 10 maggio: se c’era il sole, dicevano i contadini, ci sarebbe stato un buon raccolto. Per quella data ognuno si metteva a nuovo, sfoggiava l’abito leggero e si procurava poche lire per qualche regalo. La festa vera cadeva il 16 luglio, giorno della Madonna del Carmine, celebrata con mortaretti, girandole e gli scoppi del “cameju”, il principe dei fuochi d’artificio portato sulle spalle dal più coraggioso del paese e fatto bruciare a ritmo di danza, secondo la tradizione spagnola.               Ritorno all'indice

 La Musica

La competizione tra la festa padronale di Caria e quella della Madonna di Romania a Tropea il 9 settembre e dei SS. Cosma e Damiano del 28 settembre a Brattirò, riguardava le bande musicali. Si contendevano la piazza le bande pugliesi di Gioia del Colle e di Acquaviva delle Fonti. Ogni paese aveva i suoi intenditori e l’ascolto delle esecuzioni bandistiche era un rito sacro. Gli esperti di Caria erano mio padre, mascio Ciccio “u custureri” ovvero il sarto oltre che organista nella chiesa parrocchiale, Rocco Pugliese e Ciccio Bagnato, cugino di mio padre. A loro debbo l’iniziale interesse per la musica, consolidatosi nel tempo attraverso ascolti costanti e la frequentazione di sale da concerto e teatri nelle principali città italiane e straniere.

A casa si trovavano i libretti delle principali opere liriche, forse raccolti da zio Alessandro e da uno strano personaggio di cui si favoleggiava, un tale maestro Piro che insegnava negli anni Trenta nella scuola elementare di Caria, abile ritrattista di cui è prova il ritratto a matita di uno zio che possiedo ancora. Quei libretti mi consentivano di seguire il sabato sera la trasmissione alla radio di musica lirica con il testo in mano. Ho così imparato arie, cavatine, cori, duetti, recitativi e concertati delle principali opere teatrali in musica, oltre ad avere avuto la fortuna di ascoltare le grandi esecuzioni di Maria Callas, Renata Tebaldi, Mario Del Monaco, Giuseppe Di Stefano, Franco Corelli, Ettore Bastianini, Tito Gobbi per citare i più importanti solisti e godere la direzione d’orchestra di Victor de Sabata, Franco Maria Giulini, Tullio Serafin, Gianandrea Gavazzeni, Guido Cantelli, Sergiu Celebidache, Otto Klemperer, Bruno Walter. Le registrazioni più comuni trasmesse erano quelle di Arturo Toscanini, Wilhelm Furtwängler, Dimitry Mitropulos. Il salto di qualità è avvenuto con la stereofonia e la diffusione dei dischi. Ne possiedo oltre 4.000, tra vinile e CD, comprendenti le case discografiche di tutto il mondo.

Ma l’emozione più grande è stata ascoltare le esecuzioni dal vivo di grandissimi maestri, allorquando ho potuto viaggiare per ragioni di lavoro e mi sono potuto permettere la frequentazione di teatri e sale da concerto. Svjatoslav Richter, Emil Gilel’s, Maurizio Pollini, Mstislav Rostropovič, Vladimir Ažkenazyj, assistere alle esecuzioni dei Berliner e Wiener Philharmoniker, dell’orchestra filarmonica di Leningrado o del Conservatorio Čajkovskij di Mosca, dell’Accademia di Santa Cecilia o della Scala, della London Symphony, oppure trovarsi a un concerto diretto da Herbert von Karajan, Claudio Abbado, Leonard Bernstein, Evgenij Mravinskij, Georges Prêtre, Gennadij Roždestvenskij, o le composizioni di Goffredo Petrassi, Luciano Berio, Pierre Boulez, Karlheinz Stockhausen, Ennio Morricone dirette dagli stessi autori, o a opere interpretate da Christa Ludwig, Placido Domingo, Teresa Berganza, Elena Obracova, Boris Christoff, Ruggero Raimondi e tantissimi altri. Il ricordo di quelle serate è ancora oggi una emozione indimenticabile. Se non ci fossero state le serate sotto il palco illuminato delle feste patronali nelgli anni dell’adolescenza, con il repertorio scritto a mano sul tabellone, riguardanti spesso pregevoli trascrizioni bandistiche di Barbiere di Siviglia, Norma, Rigoletto, Lucia di Lammermoor, Carmen, Pescatori di perle, Cavalleria Rusticana, Pagliacci, Sonnambula, Tosca, Bohème e Traviata, tra commenti salaci sulle steccate del flicorno o del flauto, sui salti di semitono della tromba e sulle cadute della tonalità nel clarinetto, non avrei mai avuto cognizione dell’importanza della musica colta nella formazione di una persona. Gli amici d’infanzia mi prendevano in giro per questa mia passione, in quanto il dominio dei Platters e di Elvis Presley era pressoché totale all’epoca, mentre Gino Paoli si affacciava con La gatta e Il cielo in una stanza, a dispetto degli urlatori che Domenico Modugno avrebbe messo a posto qualche anno dopo con la sua genialità.                                Ritorno all'indice

  L’Agricoltura

Debbo la conoscenza dell’agricoltura e dell’economia agraria ai contadini di Caria, Brattirò e Tropea, a mia madre che mi obbligava a innaffiare l’orto e a raccogliere fagioli, a mio zio Antonio Lo Scalzo. Quest’ultimo era un ortolano accurato, potatore abilissimo di viti e di piante da frutto, oltre che innestatore proverbiale, anche se la professione principale era quella di cantoniere provinciale. Egli ha introdotto a Caria nuove varietà di peri, meli, peschi e albicocchi che metteva a dimora una volta ottenutane la consegna da parte dei Vivai Sgaravatti, ai quali si rivolgeva per corrispondenza. Egli era orgoglioso dei risultati che otteneva e spiegava a me che ero il più curioso in che consisteva la differenza di ciascuna pianta e di ogni frutto rispetto agli altri, concludendo sempre con la frase «La pratica rompe la grammatica». Sono stato molto legato a questo zio che nelle difficoltà ha sempre aiutato la mia famiglia.

Ma anche mio nonno Agostino era uno sperimentatore. Nel giardino attorno casa, oltre a ciliegi, peschi, peri, susini, fichi, cresceva una palma dattilifera che non riusciva a fruttificare, un cespo di lavanda profumatissima che chiamavano “citrina”, un gelsomino meraviglioso e una passiflora rigogliosa, oltre a cespi di rose, dalie, ciclamini e infinite varietà di garofani, anemoni e violette del pensiero che tutti invidiavano e chiedevano di poter riprodurre. Ma il vanto maggiore del nonno era il campo di carciofi e di cotone che dominava sotto i nespoli, gli aranci e i limoni, l’albicocco di una varietà locale detta grisomolo, un gelso nero che era la meraviglia della zona per il rigoglio vegetativo e l’abbondanza delle succose more. Mio nonno si vantava di aver portato quelle piante dalla Sicilia e in particolare da Messina, dove si recava spesso per ordinare legname di castagno, ferro per i cerchi delle botti, materiali vari per la sua attività. Il pergolato di uva fragola era una meraviglia di pampi, ombrosità e ricchezza di grappoli e di nidi di passeri. La natura trionfava nell’intrico di tralci che l’energica potatura consentiva ogni anno a primavera di rigenerarsi e rinnovarsi miracolosamente. La pergola ha resistito anche all’abbandono della casa, dopo il trasferimento della mia famiglia a Roma e gli ultimi germogli sono stati estirpati con i lavori di ristrutturazione nell’ultimo decennio del secolo scorso.

 L’altra fonte della mia conoscenza dell’agricoltura sono stati i contadini del Lazio, oltre che gli studi di economia agraria. Nel Lazio la storia agraria risente ancora oggi dell’eredità pontificia e borbonica, essendo una ragione che ingloba territori dei due ex Stati. Coloni miglioratari, mezzadri, contadini poveri e senza terra, coltivatori diretti, affittuari, salariati agricoli e braccianti e delle grandi aziende agricole appartenenti ai discendenti delle famiglie romane che hanno dato papi e condottieri come Borghese, Orsini, Colonna, Pamphilj, Aldobrandini, Torlonia sono stati le mie Università, per dirla con Maksim Gor’kij. Ho cominciato poco dopo essere giunto a Roma come tecnico agronomo, sono poi passato all’impegno politico-professionale come dirigente dell’Alleanza dei Contadini e successivamente nell’incarico di Assessore all’agricoltura e foreste della Regione Lazio, dirigente della Lega nazionale delle cooperative nel settore agro-alimentare e della pesca, fino agli incarichi nel Cogeca (Comitato generale europeo della cooperazione agricola), nel Comitato economico e sociale della Comunità Economica Europea e dell’Alleanza cooperative internazionale. Ma l’emozione provata di fronte all’esplosione della primavera tra gli orti, i vigneti e i frutteti di Caria, Tropea e del Poro o della fienagione a maggio, la mietitura e trebbiatura a luglio e la raccolta dei fagioli a settembre, fino alla festa per l’uccisione del maiale e la preparazione di salumi, dalla piccante ‘nduja alla saporita soppressata. Soltanto a Roma ho appreso che nduja deriva dal francese anduille, salsiccia, forse lascito della dominazione angioina.

Andavo a Tropea a piedi, ogni giorno, passando per scorciatoie note da secoli. All’altezza del fontanile di S. Agata, per evitare la vasta curva che costeggiava un antico casale sulla sinistra e giardini di aranci e limoni per chi scende da Caria, attraversavo l’uliveto ben curato che mi consentiva di sbucare quasi al bivio di Brattirò. Un chilometro di sentieri e si giunge al promontorio che domina Tropea, contrassegnato da un minaccioso bunker nazista come un gigantesco occhio di Ciclope. Da quell’altura il panorama si apre sul mare dalle isole Eolie fino al golfo di Policastro, deliziando lo sguardo con i colori cangianti in ragione delle correnti che attraversano quello specchio del Tirreno. Non c’erano soldi per l’abbonamento alla corriera. E non è vergogna dirlo...

La domenica mattina quei sentieri erano percorsi dai contadini di Caria che a dorso d’asino si recavano al mercato di Tropea, affollato di convenuti da tutti i casali vicini, appartenenti ai nobili dell’antica città regia, orgoglio e vanto della libertà rispetto ai centri rurali assoggettati nel passato ai voraci feudatari. Era uno spettacolo bellissimo per la varietà di mercanzie, l’animazione, le voci che si rincorrevano, le cadenze dialettali che s’incrociavano e anche gli sguardi di corteggiamento in vista di possibili amori e futuri matrimoni. I carri sostavano lungo le stradine laterali al corso principale che finiva al celebre “affaccio”, balcone sul mare divenuto vera e propria icona del turismo meridionale.          Ritorno all'indice

 Il Mare

Il mare era il rifugio d’estate. La stagione cominciava a maggio e finiva a ottobre. Ricordo un bagno preso il 5 dicembre dalle parti dell’Isola, ma avevo quindici anni. Quando mi sono sbucciato un piede sui rottami di un aereo tedesco mitragliato e caduto nelle acque del porto di Tropea, sarei dovuto divenire cauto. Ma doppiavo a nuoto il promontorio e quando giungevo sulla spiaggia del Convento, dovevo restare sdraiato sulla sabbia bianchissima per molto tempo prima di ripartire a nuoto e tornare al porto, dove avevo nascosto gli indumenti e i libri in un anfratto. L’affitto della barca era già allora proibitivo e qualche volta era Tonino Naso che pagava il noleggio per fare un giro al largo, facendoci venire i calli alle mani a forza di remare, non essendo abituati. Anche Michele Vita, figlio del direttore dell’ufficio postale di Caria, giovane aitante e provetto giocatore di pallone nel ruolo di terzino, partecipava alle nostre scorribande marine. Ricordo di essermi trovato in difficoltà durante una immersione, tuffandomi dallo scoglio di Sant’Irene di Zambrone, nei cui fondali si trovava il corallo rosso; Michele si è tuffato senza indugio e mi ha tratto in salvo.

La salsedine dava una sensazione di forza e di benessere che soltanto le scottature solari per carenza di protezione della pelle riuscivano appena ad attenuare. Quel mare azzurro e verde, cangiante con le correnti e con il vento, blu scuro all’altezza della Pizzuta da cui ci si tuffava incautamente o trasparente come un’acquamarina tra gli scogli di Sant’Irene, era la nostra Odissea, il navigare in cerca di Calliope, Circe, di Nausicaa o delle Sirene. In nessuna altra parte del mondo ho goduto il mare come a Tropea negli anni dell’adolescenza. Il mio amore per i luoghi di mare nel Lazio e dintorni, come Gaeta, Sperlonga, Sabaudia, Tarquinia, Orbetello e Argentario è legato a quella indimenticabile esperienza, come pure il mio profondo legame con il lago, a cominciare da quello di Vico in provincia di Viterbo, nei cui dintorni posseggo un’abitazione.

A Vibo Valentia mi recavo con la corriera, non c’era alternativa. E quanti mesi arretrati si accumulavano ogni anno con la ditta che gestiva il servizio di trasporto... Se ricordo bene, qualche mensilità è stata anche abbuonata.

Quando mi sono ammalato, nel 1960, mi sono trasferito a Catanzaro e lì ho conseguito il diploma di geometra. Ero di casa a Catanzaro, perché mia zia Rosetta e la nonna vi abitavano da anni. Trascorrevo i mesi di luglio e agosto a casa loro, in località Sala, nella tenuta dell’avvocato Felice Siciliani de Cumis, il cui proprietario è stato per me una figura protettiva, generosa, di grande umanità, un punto di riferimento morale. Sono diventato inseparabile del figlio Nicola e ho frequentato il giovanissimo Gianni Amelio, compagno di liceo di Nicola. Con entrambi ho trascorso giornate indimenticabili sulle scogliere di Copanello, Caminia, Pietragrande e Le Castella o al cinema, dove la competenza del futuro grande regista di Porte aperte, Ladro di bambini, Lamerica, Le chiavi di casa, era una scuola godibilissima per me. Ricordo in particolare la visione al Teatro Comunale di Catanzaro di Aleksandr Nevskij di Sergej Ejzenštejn e L’avventura di Michelangelo Antonioni. E che discussioni sulla letteratura italiana, con riferimento a Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Pier Paolo Pasolini, Carlo Cassola, Italo Calvino e Cesare Pavese! Boris Pasternak riempiva ancora la cronaca culturale di quegli anni per il rifiuto di ritirare il Premio Nobel per non essere costretto a lasciare l’Unione Sovietica, mentre Dottor Živago era letto avidamente e commentato pagina per pagina. Quelle discussioni hanno accresciuto l’interesse reciproco per la cultura russa.

Con Nicola Siciliani de Cumis, importante pedagogista e filosofo, studioso del pensiero di Antonio Labriola e dell’opera di Anton Semënovič Makarenko, m’incontro oggi quasi ogni giorno. E’ grazie a lui che ho potuto accedere all’insegnamento presso l’Università di Roma “La Sapienza”. E Nicola è il più prezioso collaboratore della rivista L’albatros[9] che ho avuto l’onore di fondare nel 2001 e di dirigere, in qualità di giornalista iscritto all’albo del Lazio. Anche questo è un elemento della calabresità che mi piace ricordare come dato distintivo della mia persona.

Non mi considero un calabrese a Roma. La mia formazione umana e politica resta fondamentalmente romana. Qui ho avuto come maestri Emilio Sereni, Giorgio Amendola, Luigi Petroselli, Luciano Barca, Maurizio Ferrara, Giovanni Marcora, Corrado Barberis. Qui risiedono i miei amici più cari e fraterni, i miei editori e sempre qui ha sede la redazione della rivista e della casa editrice L’albatros. A Roma ho formato la famiglia con Maria Livia Capocaccia e vivono i miei figli Costantino e Roberto. Il mio futuro è ancora nella capitale d’Italia.

Queste riflessioni sono state alla base del mio lungo lavoro di ricerca quando mi sono accinto a scrivere il romanzo più impegnativo della mia attività letteraria. Mi riferisco a Il cavalier Matthia. Scene dal Seicento sulla vita e le opere di Mattia Preti, pubblicato nel 1998 in occasione dei 300 anni della morte del Cavalier calabrese[10]. Non avrei potuto cogliere il carattere dell’autore degli affreschi di S. Andrea della Valle a Roma, di S. Biagio a Modena e della cattedrale di S. Giovanni a Valletta (Malta) e di centinaia di quadri a soggetto religioso sparsi nei principali musei di tutto il mondo, senza tornare al sentimento di figlio della Calabria, alle atmosfere rurali e alla rudezza della sua gente intrisa di orgoglio, ribellismo e volontà di riscatto. Perché Mattia Preti ha fatto di tutto per essere cavaliere di Malta ? Era soltanto la ricerca di benessere attraverso prebende e commende improbabili, o il bisogno di costituirsi uno status per sentirsi pari ai benefattori Borghese, Pamphilj, Chigi, Rospigliosi e Barberini, fino a quella donna Olimpia Aldobrandini eletta a musa ispiratrice a dispetto dell’altra Olimpia, la Pimpaccia suocera e despota, capace di giocarsi lo stesso cognato, il papa Innocenzo X immortalato nel ritratto di Diego Velázquez ? Quando il libro è stato presentato a Catanzaro nell’autunno del 1999, il sindaco Nicola Abramo, intervenuto alla cerimonia, ha sottolineato questi elementi come dati inoppugnabili, avvalorando la tesi sostenuta a tale proposito dagli studiosi presenti, a cominciare da Nicola Siciliani de Cumis, Tonino Sicoli e Claudio Crescentini. E ciò non mi è dispiaciuto affatto !                                              Ritorno all'indice

 Conclusione

La Calabria, la storia e la cultura di questa regione che sono fattori costitutivi della mia storia umana e professionale, non posso cancellarli. Mi piace ogni volta riviverli contemporaneamente alle vicende della famiglia d’origine allargata. Solo così mi sento cittadino del mondo, in quanto nato calabrese e cresciuto a Roma come italiano.

Per questo trovo opportuno il compito che si è dato questo sito Internet. E per quello che potrò fare, sosterrò questa iniziativa con tutte le mie forze, dimostrando riconoscenza a coloro che sono impegnati a gestire questa moderna e tecnologica postazione di vita e di cultura sociali.

Roma, 20 gennaio 2006    Ritorno all'indice


[1] Cfr. Paolo Cinanni, Lotte per la terra e comunisti in Calabria 1943/1953. Prefazione di Umberto Terracini, Feltrinelli, Milano 1977, p. 24. Lo storico calabrese racconta con ricca documentazione allegata il ruolo dei giovani dirigenti nella lotta per la riforma agraria. «Prevalse alla fine la tendenza dei giovani, che interpretavano nel modo più corretto la linea politica della Direzione del Partito, la quale li sostenne in tutta la loro lotta. Si ritornò quindi nelle campagne per portare avanti le iniziative del momento, e preparare nel contempo il congresso della Federterra, col consolidamento e la costruzione delle leghe contadine in ogni paese ove ciò era allora possibile [...] Due di questi giovani, Franco Ammirato e Domenico Bagnato, lasciavano successivamente la Federazione e l’Italia stessa, per andare in Jugoslavia, “ove si costruiva il socialismo». Tre anni dopo, Domenico fu costretto a lasciare Sarajevo, a causa dello scontro interno alla Lega dei comunisti della Jugoslavia; schieratosi a fianco dei comunisti ortodossi contro l’autonomismo di Jozip Broz Tito dal Comintern, tornò in Italia per evitare l’arresto. Si tratta di una pagina ancora poco nota della storia del movimento operaio e comunista italiano ed europeo, se si escludono alcuni studi di storici giuliani. Domenico Bagnato è stato sempre fedele ai suoi ideali, non rinnegando la sua esperienza internazionalista. E’ stato impegnato nell’Opera Sila per l’attuazione della riforma agraria, ha costruito l’Alleanza dei Contadini insieme a Pasquale Poerio nel Crotonese ed ha speso l’intera esistenza per combattere le usurpazioni borghesi del demanio pubblico nella Sila e nel Marchesato, iniziate subito dopo l’unità d’Italia negli ex territori del Regno delle Due Sicilie annesse al Regno d’Italia in seguito alla spedizione dei Mille guidata da Giuseppe Garibaldi nel 1860.

[2] Cfr. La Chançon de Roland, Utet, Torino 1923

[3] Cfr. Antonio Mazzitelli, Notizie storiche su Caria e suoi abitanti, Tipografia F.A.T.A., Catanzaro 1969. Il volumetto è prezioso, oltre che per le informazioni quasi sempre documentate su Caria, per la raccolta dei proverbi e dei modi di dire in uso nella zona.

[4] La pubblicazione del libro è dovuta al sacerdote Anastasia, successore di don Mazzitelli. La vicenda personale di don Anastasia, legata al fratello Alberto Anastasia, ucciso a New York negli anni Cinquanta in una guerra tra gangster, ispirò un famoso film interpretato da Alberto Sordi.

[5] Cfr. Michele Aiello, Monteleone di Calabria, Mapograf, Vibo Valentia 1998. Vedi anche Augusto Placanica, Storia della Calabria, Donzelli, Roma 1993.

[6] Sulla figura di Antonio Jeròcades e sulla nascita e lo sviluppo della massoneria, cfr. Augusto Placanica, Storia della Calabria, Meridiani libri, Catanzaro 1993, pp. 237 e sgg. Un giudizio sprezzante su questa importante figura di studioso e di diffusore delle idee illuministiche è contenuto nel volume di Michele Paladini, Notizie storiche sulla città di Tropea, a cura di Saverio Di Bella, Drapia sn. Si tratta della pubblicazione anastatica del saggio pubblicato dal canonico Michele Paladini nel 1930 dalle Arti Grafiche Lorenzo Rizzo di Catania. «Fiorì soprattutto a’ suoi tempi D. Antonio Ierocades da Parghelia noto nella repubblica letteraria per talenti e cognizioni; non sempre tuttavia seppe scriver bene soprattutto nella prosa; e fu traditore degli stessi sedotti da lui; in breve il suo stile fu imperfetto, la sua scienza non retta, la sua morale non buona», p. 255.

[7] Sulle origini dell’icona della Madonna di Romania esistono numerose testimonianze. Si veda in particolare Michele Paladini, op. cit., pp. 201-207, in cui si fa risalire l’icona al tempo dell’iconoclastia, nell’VIII secolo al tempo dell’imperatore bizantino Leone Isaurico. Recenti studi tendono a far risalire la tavola, di stile bizantineggiante nonostante alcuni particolari di chiara ascendenza latina, all’inizio del XVI secolo, opera di bottega tardo-giottesca. La tavola è attualmente custodita sull’altare maggiore della cattedrale di Tropea. La copia posseduta dai nonni paterni risale probabilmente alla metà del Settecento.

[8] Cfr. Strabone, Geografia. L’Italia. Introduzione, traduzione e note di Anna Maria Biraschi, Vol. V-VI, BUR, Milano 1994, pp. 215-218.

[9] L’albatros, trimestrale culturale, 00133 Roma, Via Levanzo, 35 www.rivistaalbatros.it

[10] Cfr. Agostino Bagnato, Il cavalier Matthia, E.S.S., Roma 1998. Il romanzo contiene una dettagliata descrizione dell’infeudamento di tanta parte della Calabria ai mercanti e banchieri genovesi creditori nei confronti del Regno di Spagna, la spiegazione delle origini e delle ragioni del brigantaggio e dell’arruolamento di tanti giovani tra i pirati turcheschi, le motivazioni della rivolta del 1599 e del coinvolgimento del frate domenicano Tommaso Campanella, l’analisi della decadenza economica ulteriore della Calabria nella seconda metà del Seicento.

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Foto 1. da Sinistra a destra Caterina Naso (mia madre), Costantino Bagnato (mio padre), Rosetta Bagnato (mia zia).

Sulla colonnina al centro sono io, Agostino Bagnato all’età di sei mesi circa.

Caria, autunno 1943.

 Foto 2. Rosetta Bagnato in gita sulla Costiera Amalfitana nel 1954.

 Foto 28.  Il matrimonio di Caterina Naso e Costantino Bagnato, genitori di Agostino.

 Foto 3. da sinistra a destra, Michele Vita e Agostino Bagnato, Caria estate 1960.

Foto 4. Compagni della IV classe dell’Istituto Tecnico per Geometri di Vibo Valentia in visita al Parco della Rimembranza per una esercitazione topografica, Vibo Valentia 1959. Al centro, in basso, Agostino Bagnato.

Foto 5. La 5° classe dell’Istituto Tecnico per Geometri di Vibo Valentia in visita sulle alture di Pizzo Calabro, novembre 1960. Al centro in basso, il professore di letteratura italiana Antonio Sposaro; penultimo a destra in basso Agostino Bagnato.

Foto 6. Agostino Bagnato fu Giuseppe (mio nonno), la figlia Rosetta Bagnato e i nipoti Rosaria (sulle gambe del nonno), Giuseppe Rocco, Francesco, Agostino (sono sempre io) e Maria Rosa, i primi miei quattro fratelli.

 Foto 7. Agostino Naso (mio zio materno) con la moglie Caterina Lo Scalzo

Caria, autunno 1964

Foto 8. Maria Rosa Naso in Bagnato (mio nonna paterna) al centro, con i figli Rosetta, Costantino e Rosaria Bagnato e i pronipoti Alessandro e Gennaro figli di Domenico Bagnato, festeggia il 90° il compleanno, Catanzaro, 1970

Foto 9. Rosetta Bagnato accudisce il giardino della casa paterna di Caria. Estate 1963

Foto 14. Agostino Bagnato (sono io) all’età di 10 anni. Foto per l’iscrizione alla scuola media inferiore di Tropea, 1953.

Foto 10. Maria Rosa Naso in Bagnato festeggia il 90° compleanno con i figli Rosetta, Costantino e Rosaria Bagnato, Catanzaro 1970

Foto 11. Maria Rosa Naso in Bagnato festeggia il 90° compleanno con i figli, i nipoti e i pronipoti. Da sinistra a destra: Domenico Bagnato, Costantino, Rosetta e Rosaria, Agostino e Rosina Bagnato, i pronipoti Gennaro, Alessandro e Sara, figli di Domenico.

Catanzaro 1970.

Foto 12. Maria Rosa Naso festeggia il 90° compleanno insieme ai figli Rosetta, Costantino e Rosaria. Catanzaro 1970.

Foto 13. Alessandro Bagnato con la scolaresca a Genovizzo

Bocche di Cattaro (Albania). Maggio 1943.

 Foto 15. Classe 3° media di Tropea (io sono l’ultimo a destra, in piedi), Tropea 1956

 Foto 16. IV° Classe dell’Istituto Tecnico per Geometri di Vibo Valentia in gita scolastica.

Primavera 1960.

Foto 17. Giuseppe Rocco Bagnato

(mio fratello morto nel 1974 in un incidente stradale).

Caria, estate 1964.

Foto 19. Agostino Bagnato in visita al lager di Buchenwald (Weimar), ex Germania orientale, nei pressi del tronco della celebre Quercia di Wolgang Johannes Goethe, maggio 1966

 Foto 18. Agostino Bagnato (sono io), un amico di cui non ricordo il nome, Tonino Naso nella Villa Grimaldi di Vibo Valentia, primavera 1960.

Foto 20 Rosaria Pugliese

(mia nonna materna)

a Caria Autunno 1966.

 Foto 21. Francesco Naso

(mio nonno materno)

Caria 1914 circa.

 Foto 22. Alessandro Bagnato in una cartolina funebre, Vibo Valentia 1972.

Foto 23. Maria Rosa Naso nella casa della figlia Rosetta nel centro di Catanzaro, 1963

 Foto 27. Caterina Naso e Costantino Bagnato, il giorno del loro.

Foto 24. Agostino Bagnato in località Fiumara, Caria, fine anni Venti.

Sullo sfondo s’intravede la figura del marchese Giuseppe Toraldo.

F 25. Caterina Naso(in basso a dx) con le allieve della scuola di Caria nel periodo fascista

Foto 26. Caterina Naso mamma di Agostino Bagnato mentre fa il bucato

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Ricordo di MARIA ROSA BAGNATO (ultima figlia du Varijru)

 A un anno dalla scoparsa

 E tu certo comprendi

Il perché delle cose, e vedi il frutto

Del mattin, della sera,

del tacito, infinito andar del tempo.

Giacomo Leopardi

Canto notturno, 70-73

Maria Rosa Bagnato si è spenta il 13 giugno dello scorso anno a Roma, all’età di 86 anni. Era l’ultimo componente in vita della famiglia di Agostino Bagnato «u varijaru» e di Maria Rosa Naso (ramo dei Turchi). Era nata a Caria nel 1928 e dopo il diploma in ragioneria era stata assunta dall’agenzia Olivetti di Vibo Valentia, una delle prime aperte in Calabria. I più giovani di lei ancora viventi la ricordano alla scrivania nell’elegante ufficio sul corso principale della città, di fronte all’Istituto Magistrale, oppure impegnata a dare spiegazioni ai clienti sulle qualità e il funzionamento delle macchine da scrivere e della calcolatrici. Per i successi nel suo lavoro è stata premiata con visite a Ivrea e partecipazione e seminari di studio a Villa d’Este di Cernobbio sul Lago Maggiore.

 Verso la fine degli anni Cinquanta si è trasferita a Catanzaro, in qualità di collaboratrice dell’avvocato Felice Siciliani e all’inizio degli anni Sessanta è stata assunta dall’Amministrazione Provinciale di Catanzaro, incaricata dell’ufficio di assistenza alle ragazze madri e poi addetta alla ragioneria generale, fino ad assumere la responsabilità della gestione del bilancio, incarico mantenuto fino alla pensione, ottenuta nel 1989. Una carriera esemplare nella pubblica amministrazione, fondata sulla competenza, la correttezza, l’onestà, il rispetto delle regole, la fedeltà alle istituzioni. 

Maria Rosa Bagnato non passava inosservata: bella, alta di statura, figura armoniosa e leggiadra, volto solare e sorriso aperto e allegro, sempre elegante e inappuntabile nei comportamenti. Sapeva farsi amare e rispettare per la forte personalità fatta di carattere determinato, larghe vedute, cultura laica e aperta, acuta ironia, qualità posate su una intensa laboriosità e un forte rigore morale. Fino al termine dei suoi giorni, è stata attiva e dinamica, esempio di vitalità per tutti coloro che la conoscevano, dai parenti ai lontani colleghi di lavoro, agli amici, ai vicini di casa a Catanzaro, dove risiedeva abitualmente.

I numerosi nipoti sparsi tra Roma, Crotone, Vibo Valentia e Verbania le sono stati vicini con affetto e riconoscenza per la sua generosità; più labili i rapporti con i nipoti americani, figli dei fratelli emigrati negli Stati Uniti prima che lei nascesse. I cugini l’hanno sempre stimata e sostenuta.

Non sarà dimenticata, perché lascia un patrimonio di affetti e di amore. E’ sepolta nel cimitero di Vibo Valentia nella cappella di famiglia.

Gregorio Caria

 

Foto 27.  Rosetta - Maria Rosa Bagnato (ultima di Varijari)

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